Qualche tempo fa, parlando di Black Classical Music, dissi che il jazz non è come le scoregge e non piace solo a chi lo fa.
Ripensandoci meglio, però, mi sono reso conto che molte persone - quasi tutte - hanno dei bias nei confronti di questo genere. Questo è dovuto a diverse ragioni, su tutte alla corsa del jazz stesso verso destrutturazione del concetto di canzone degli anni ’60 e alla matassa sonora fatta di performance, assoli, tempi dispari e altre amenità in cui si è avviluppato fin da subito. Tutte cose che l’hanno portato ad essere complesso per scelta, allontanando molti possibili ascoltatori che “il jazz non lo capisco e poi son solo trip di chi lo suona”.
Ad ogni modo, in qualità di apologeta ufficiale senza nessuna competenza specifica - sì, mi sono appena dato questa qualifica - sono qui per cercare di farvi cambiare idea. O, almeno, provare a convincervi a dare una possibilità a questo genere meraviglioso che non è così spaventoso come sembra.
Per farlo ho deciso di sfruttare un’arma molto potente: un libro. E non un classico libro musicale biografico o storiografico, bensì “Natura morta con custodia di sax” di Geoff Dyer.
Perché proprio questo libro, vi starete chiedendo. Ottima domanda, vi rispondo. Allora, intanto perché è scritto molto bene, con uno stile e una prosa che, pur essendo peculiari, mantengono la lettura piacevole e scorrevole: non stiamo parlando di free jazz letterario, per intenderci.
Poi perché racconta il genere in una maniera così profonda e allo stesso tempo immediata, che è praticamente impossibile non aver voglia di ascoltare almeno un brano degli artisti protagonisti. Magari mentre si legge, come è successo a me.
Il concept del romanzo è semplice ma efficace: una serie di racconti ed aneddoti, romanzati se non inventati di sana pianta, su alcuni dei jazzisti più influenti della storia, uniti fra di loro dal racconto di un lungo viaggio in macchina.
I protagonisti sono: Art Pepper, Thelonious Monk, Charles Mingus, Duke Ellington, Chet Baker, Lester Young, Bud Powell e Ben Webster.
La scelta narrativa è il punto forte di “Natura morta con custodia di sax”. Perché è perfetta per descrivere il jazz e ad esso si ispira. Come dice lo stesso autore nella prefazione:
“Molte situazioni nascono da episodi famosi, se non leggendari (come quella volta che Chet Baker si fece spaccare i denti). Sono tutti episodi che appartengono a un repertorio comune di aneddoti e di notizie vulgate: sono, per così dire, degli standard che io rielaboro, riferendo più o meno sommariamente i fatti principali per poi improvvisarci sopra.”
Un espediente, quindi, che si adatta perfettamente alla natura del genere, come dicevo.
Di fatti, siamo soliti considerare il jazz come la massima espressione di complessità musicale, di artificiosità - per certi aspetti - e di ricerca del limite. Ma, più di tutto, ad esso colleghiamo l’imprevedibilità, con l’improvvisazione, gli assoli lunghissimi e i tempi sghembi e improbabili.
Ecco quindi che raccontare la storia di Chet Baker - il bello e dannato consumato dall’eroina - oppure gli scatti d’ira di Charles Mingus, o ancora il rapporto totalizzante fra il silenzioso Monk e sua moglie Nellie - il suo angelo custode - ci porta a vedere il lato umano, a volte anche crudele e doloroso, di artisti che sappiamo essere importanti ma da cui siamo spesso intimoriti, quasi fossero dei totem da tenere lontani finché non ci sentiamo pronti a capirli.
Raccontare la storia di questi artisti, inoltre, ci offre una visione del contesto in cui essi vivevano, che è sempre importante.
La musica, ove fatta bene, è rappresentazione del mondo. La musica è il mezzo attraverso il quale i problemi, le brutture, ma anche la bellezza e la gioia vengono manifestate. Senza il background la musica non sarebbe viva né tantomeno vera, ma solo un ammasso posticcio di suoni creato per vendere copie e riempire i locali.
Il jazz non è mai stato questo, e avere questo sguardo di insieme ci aiuta a comprendere la sua importanza e rende il tutto ancor più intrigante.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che questo genere nasce all’interno delle comunità afroamericane nei primi del ‘900, come derivazione del blues. Per questa ragione porta con sé tutti i problemi legati alla condizione di questi uomini e queste donne: segregazione, ritorsioni, aggressioni da parte della polizia. Così come l’uso di sostanze, fra alcol e droga, che da sempre attanagliano le menti degli artisti più profondi, ma anche la voglia di rivalsa, la fama, il successo.
“Natura morta con custodia di sax” ci mostra, in definitiva, il lato umano del jazz, quello più patetico - nel senso letterale del termine - dimostrando che no, non è una forma di auto-erotismo sonoro per chi lo suona e anzi, chi lo suona è molto meno alieno di quanto la sua musica faccia apparire.
E tutto questo non può, a mio modo di vedere, non suscitare interesse.
Quindi, leggetelo.
E mentre vi appassionate alla storia di Monk che
“sul palco non suonava il pianoforte. Il pianoforte era soltanto un mezzo per far uscire la musica dal suo corpo”
oppure Mingus così pieno di rabbia che
“strada facendo attaccava briga con i passanti, ed era capace di continuare ad insultare per quattro isolati il guidatore di un furgoncino, dopo avergli urtato senza volerlo lo specchietto laterale”
ascoltate i loro dischi e date una chance, finalmente, al jazz.
Ne vale la pena, promesso.
Peace!