Siamo individui che consumano in solitudine una cultura sempre più omogenea
Questa frase viene da un testo che Mark Fisher ha pubblicato nel 2008 su New Statesman. Sono passati 17 anni eppure non è cambiato nulla. Anzi forse le cose sono peggiorate.
Le canzoni suonano tutte uguali, l’industria cinematografica e quella videoludica sono piene di reboot, remake, rielaborazioni. Addirittura non si dà nemmeno il tempo ai film di invecchiare che diventano serie tv che nessuno ha chiesto.
Sono davvero tanti i discorsi che si potrebbero fare a riguardo, ma oggi ho deciso di parlare dell’argomento che conosco meglio: la musica.
A partire dal ‘900, grazie ai sistemi di registrazione, la radio e poi la stampa fisica, la musica è diventata prodotto di consumo, una merce. Affermare il contrario sarebbe miope e nostalgico e, per quanto io sia entrambe le cose, voglio sforzarmi di essere il più oggettivo possibile.
Prima del 21esimo secolo, però, la musica conservava anche altre funzioni: quella politica, quella di protesta, quella di puro intrattenimento, quella di svago.
Oggi non è più così. Oggi la musica è solo un prodotto da vendere. E come tale viene trattato.
Tra l’altro attualmente si parla spesso del fatto che non ci siano soldi nell’industria musicale: non è vero. I soldi ci sono, è solo che finiscono nelle mani “sbagliate” e non sono ripartiti nel modo giusto.
Tutto questo trova una sintesi perfetta in uno dei simboli del sistema musicale contemporaneo: Spotify.
Io non uso Spotify per vari motivi: primo perché la qualità audio è una vergogna - ne ho parlato qui - poi perché il loro rapporto con gli artisti, specie gli indipendenti, è sbilanciato e vessatorio.
Spotify paga una cifra infinitesimale a chi produce musica, è ostaggio delle grandi major, pilota il mercato con le sue playlist editoriali e promuove un concetto di musica che è solo ed esclusivamente volto al consumo.
Una scorpacciata di tutto ciò che il mondo musicale ha prodotto fino ad ora gratis o in cambio di un abbonamento mensile - così non hai la pubblicità. Questo, più o meno, quello che offre Spotify.
Un meccanismo in cui, in teoria, ci guadagnano tutti. Io artista - o prosumer - posso inseguire il sogno e far sì che la mia musica raggiunga chiunque; io consumatore posso ascoltare quello che voglio senza dover comprare mille dischi o spendere migliaia di euro in mp3; io etichetta ho un luogo in cui le mie canzoni vengono riprodotte - dato che nessuno compra i dischi o va ai concerti; io Spotify ci guadagno perché la gente usa la mia piattaforma. Vincono tutti, no?
No.
Sostenere che Spotify sia IL problema di tutto, però, è sbagliato. Spotify non è il problema, Spotify è un sintomo: è il risultato del contesto nel quale ci troviamo. Certo, non fa nulla per metterci una pezza - anzi! - ma non è tutta sua la colpa.
Torniamo all’inizio: “Siamo individui che consumano in solitudine una cultura sempre più omogenea”. È qui che sta il problema: nell’omogeneità dell’offerta culturale. A cui si aggiunge la completa svalutazione degli artisti.
Se ci pensiamo bene tutto l’intrattenimento ormai ruota attorno a due cose: consumare quanto più possibile e lasciare che qualcuno decida per noi cosa consumare.
Quante volte abbiamo aperto Spotify, ma anche i social o Netflix, e ci siamo lasciati guidare dalle playlist, dai suggerimenti, dalle classifiche, dagli algoritmi. Quasi sempre. Ormai lo facciamo anche inconsapevolmente.
Il nostro mondo è costruito sulla semplificazione delle nostre vite. Ascolto una playlist perché è più comodo: non devo pensare a cosa ascoltare, qualcosa troverò. Scorro i reel di Instagram perché l’algoritmo mi propone cose che quasi sicuramente mi piacciono; apro la fyp di TikTok perché posso svagarmi senza dover cercare qualcosa da guardare: tung tung tung tung sahur fa ridere, in fondo.
Questo dà vita, però, ad innumerevoli complicazioni.
Intanto, come diceva Fisher 17 anni fa, c’è un generale appiattimento dell’offerta culturale. Se le piattaforme sono gestite da algoritmi che hanno come solo obiettivo quello di massimizzare lo screen-on time indipendentemente dal contenuto in sé, chi quei contenuti li produce - magari per lavoro - si troverà costretto a andare nella direzione di ciò che funziona. Nella direzione di ciò che piace all’algoritmo.
Meme, infografiche, ma anche “Sapevi che…”; “ti consiglio 3 dischi che…” e compagnia sono ormai entrati nelle nostre vite. 15/30/60 secondi di video in cui vieni bombardato di informazioni. Ecco, questo vale anche per la musica.
In un contesto in cui sono algoritmi e playlist a ricoprire il ruolo più importante, chi di musica ci vive non può permettersi di ignorarli.
Non solo, chi ci mette i soldi nell’industria e nella produzione - specie a livelli alti - che interesse ha nel cambiare il meccanismo? Che interesse ha nel rischiare e proporre qualcosa di nuovo?
Non so quanti musicisti ci sono fra di voi, ma sicuramente vi sarete sentiti dire cose del tipo “questa canzone è troppo lunga”, “al momento non stiamo cercando questo”, “una cosa del genere non entra in playlist”, “che numeri hai su Spotify?”.
Le etichette, le major che vi ricordo hanno in mano la quasi totalità del mercato, non hanno interesse nel rischiare. Non hanno neanche interesse nell’investire nella produzione, in realtà, se non sono sicuri di rientrare dell’investimento e poterci guadagnare.
Sono finiti i tempi in cui l’A&R cercava qualcosa di nuovo. No, adesso si cerca la copia di quello che già funziona.
E quindi abbiamo brani che durano poco, che si concentrano su un ritornello, o addirittura solo una frase di pochi secondi che possa creare engagement, che possa essere riutilizzata in altri contesti e che sia capace di alimentare il circolo.
E abbiamo, poi, artisti che sono la copia della copia di qualcuno. Senza dimenticare un completo svilimento del concetto di musica indie, che di indipendente ormai non ha nulla se non l’estetica.
“produci → consuma → crepa” dicevano i CCCP.
Ma quindi, cosa possiamo fare noi, in un contesto così desolante, per cambiare le cose?
Intanto smettere di usare Spotify. Si può vivere senza playlist, si può scoprire musica in tanti altri modi: non c’è bisogno di un algoritmo, di avviare una radio a partire da un brano.
A meno che non siate davvero legati a quell’incredibile movimento musicale svedese di background music che, chissà come mai, ha invaso tutte le playlist registrando miliardi di ascolti. (Ted Gioia ha spiegato tutto qui)
Basta aprire la pagina di Wikipedia di un certo artista per scoprire un mondo.
L’altra cosa fondamentale da fare, poi, è sostenere gli artisti nella maniera più diretta possibile: andare ai concerti, comprare i dischi, il merch. E qualora non avessimo soldi per sostenerli direttamente si può sempre spammare la loro musica. Condividere quello che fanno e che secondo noi merita di essere ascoltato. Parlare della loro musica.
Aggiungo un piccolo appunto rispetto a quest’ultima cosa, dato che mi tocca da vicino: non ho ancora preso una posizione sulla divulgazione musicale sui social. Intendo video tipo “tre dischi che non conosci”.
È sicuramente un modo per lasciarsi guidare da qualcuno che non sia un algoritmo: una persona, qualcuno che cerca, si informa, studia e poi divulga.
D’altra parte, però, ho la sensazione che molti di questi contenuti stiano diventando semplicemente un altro content da incasellare nel flusso: 30 secondi, un buon pitch, una grafica accattivante e delle frasi in recensitichese.
Mi danno l’impressione di essere guide per i consumatori, più che critiche volte ad influenzare la produzione musicale.
E allora mi chiedo: si parla sul serio di musica? O si sta suggerendo cosa consumare oggi?
Il mio dubbio è tutto qui: voglio essere parte della critica, o finire nella grande guida al consumo che raccontavo poco fa? Voglio davvero parlare di musica o voglio limitarmi a dire “ascolta questo che spacca”?
Non so.
Magari fatemi sapere cosa ne pensate voi!
Chiudo con un’altra citazione di Fisher, come al solito calzante:
la tecnologia da sola non può produrre nuove forme di cultura.
Peace!
Condivido l'analisi. Spotify peraltro è il modo più comodo per fruire musica in auto ed avere la possibilità di spaziare fra tutti i generi e ascoltare musica da tutto il mondo.
Tutto maledettamente centrato, e Fisher avanti anni luce.